Quali ripercussioni può avere una richiesta di risarcimento del danno consapevolmente “gonfiata” da chi mette in moto un giudizio civile? Ai fini di una corretta interpretazione della questione, bisogna anzitutto valutare se possano esservi risvolti penalistici.
L’articolo 640 c.p. disciplina il reato di truffa e punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni ed una multa da 51 a 1.032 euro “chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”; nella fattispecie di cui al quesito de quo, non è certamente possibile ravvisare il reato di truffa, in quanto non viene posto in essere alcun artifizio o raggiro dall’attore che, senza alterare la realtà dei fatti, si “limita” a richiedere a titolo di risarcimento un importo maggiore rispetto a quello cui avrebbe diritto.
La frode processuale (art. 374 c.p.), invece, esula anch’essa dalla fattispecie in analisi, poiché sanziona chi “immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone al fine di trarre in inganno il giudice in un atto d’ispezione o di esperimento giudiziale”.
Analizzando la casistica disciplinata dal codice di procedura civile, si tenga presente che l’art. 96 c.c. disciplina la fattispecie di “responsabilità aggravata”, c.d. lite temeraria.
L’art. 96 c.p.c. prevede espressamente che “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.
Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza.
Sarebbe però, anche in questa ipotesi, difficilmente ravvisabile la fattispecie di lite temeraria nel caso in cui la richiesta di risarcimento risulti correttamente fondata nell’an; in tal caso, infatti, lo strumento processuale potrebbe essere volto a delimitare il quantum di tale richiesta, atteso che il danno deve essere provato in detta sede.
E si giunge ora all’unica risposta che possa risolvere il nostro quesito, fornita direttamente dall’orientamento univoco della Corte di Cassazione; la stessa, infatti, ha chiarito che “la riduzione, anche sensibile, della somma richiesta con la domanda giudiziale non integra gli estremi della soccombenza reciproca, ma ugualmente, con valutazione discrezionale, incensurabile in sede di legittimità purché adeguatamente motivata, il giudice ne può tenere conto ai fini della compensazione, totale o parziale, delle spese di lite (Cass., sez. I, sent. n. 16526, 5.8.2015) e, parimenti, giustifica la compensazione delle spese la circostanza che la parte attrice sia rimasta vittoriosa in misura più o meno significativamente inferiore rispetto all’entità del bene che voleva conseguire (Cass. n. 4690/2004)” (Cass.. civ., sez. III, sent. n. 22388, 10.12.2012).
La richiesta giudiziale di risarcimento, infatti, è sottoposta alla valutazione del giudice che in sede processuale stimerà l’opportunità e la legittimità della richiesta dell’attore sia nell’an che nel quantum.
In conclusione, la domanda giudiziale di risarcimento esorbitante e/o sproporzionata non potrebbe sconfinare in un reato poiché tale previsione comprimerebbe i diritti dell’attore e/o renderebbe più onerosa/rischiosa la richiesta dell’attore stesso che dovrebbe avere contezza dell’esatto valore del importo richiedibile a titolo di risarcimento a priori rispetto al successivo processo nel quale dovrà essere provato tale danno.