All’esito di referendum popolare, con Legge n. 898/1970, è stato introdotto l’istituto del divorzio e, ancora, con Legge n. 55/2015, dopo oltre quarant’anni, è stato riformato l’istituto medesimo, essendo stato introdotto il c.d. divorzio breve, che ha ridotto da tre anni a dodici mesi il periodo di separazione legale ininterrotta per poter proporre la domanda di divorzio a seguito di separazione giudiziale; in caso di separazione consensuale, invece, il predetto periodo è stato ulteriormente abbassato a sei mesi.
Il divorzio produce una serie di effetti, tra i quali il venir meno del dovere di fedeltà, di coabitazione, di assistenza morale e materiale e di collaborazione. A ciò si aggiungano importanti effetti patrimoniali, persistendo nei confronti dell’ex coniuge un dovere di solidarietà che presuppone un corrispondente diritto al mantenimento della parte economicamente più debole.
Invero, l’art. 5 della Legge sul divorzio prevede che, con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale – tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio – dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive c.d assegno di mantenimento in caso di divorzio.
VALUTAZIONE COMPARATIVA DELLE CONDIZIONI ECONOMICO-REDDITUALI DEI CONIUGI PER L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO IN CASO DI DIVORZIO
In tale scenario, è passata alla storia la nota sentenza n. 11504 del 2017, la quale, modificando il consolidato orientamento preesistente, ha per la prima volta stabilito che il riconoscimento dell’assegno divorzile, nella fase del giudizio in punto an debeatur, prescinde dal parametro di riferimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; estinguendosi il rapporto matrimoniale per effetto della sentenza di status divorzile, sia sul piano personale, sia su quello economico-patrimoniale, una tale garanzia per il coniuge economicamente più debole collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto e con i suoi effetti giuridici, incarnando una illegittima ultrattività del vincolo matrimoniale in mera prospettiva economico-patrimoniale; diversamente, l’assegno di divorzio che può essere riconosciuto all’ex coniuge, come persona singola e non già come ancora parte di un rapporto matrimoniale estinto, di natura eminentemente assistenziale, è informato soltanto al criterio dell’inadeguatezza dei mezzi ed alla coincidente condizione soggettiva dell’impossibilità a procurarseli per ragioni obiettive in rispetto del canone di autoresponsabilità dei singoli, da intendersi in mera prospettiva di indipendenza od autosufficienza economica a condurre una esistenza libera e dignitosa, secondo il canone di residuale solidarietà postconiugale esigibile in virtù della pregressa vita comune, a tenore degli artt. 2 e 23 Cost..
Poco più di un anno dopo, sono intervenute le Sezioni Unite le quali, nel ribadire il sopra enunciato principio di diritto, ne hanno mitigato la portata, affermando che “ai sensi della l. n. 898/1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la l. n. 74/1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto” (cfr. Cass. Civ., SS. UU., sentenza n. 18287/2018).
Si badi, dunque, che nel giudizio di adeguatezza, deve tenersi conto dei ruoli assunti dai coniugi al fine di accertare lo squilibrio economico-patrimoniale, anche in relazione alla durata del matrimonio e all’età del richiedente. Sicché, la decisione sull’assegno di divorzio deve essere espressa alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti che tenga conto delle modalità con cui la vita familiare è stata condotta in costanza di matrimonio, anche alla luce della durata dello stesso e dell’età del coniuge richiedente l’assegno.
MANTENIMENTO DELLA PROLE
L’obbligo di mantenimento della prole, come noto, sussiste sia nei confronti dei figli nati all’interno del matrimonio, sia nei confronti dei figli naturali. Tale dovere trova fondamento costituzionale nell’art. 30 Cost., il quale prevede – fra le altre cose – che è diritto/dovere dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli.
Inoltre, l’art. 316 bis c.p. dispone che i genitori debbano adempiere agli obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo le loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
In caso di divorzio, il Tribunale è chiamato a determinare l’importo del contributo al mantenimento dovuto dal genitore non collocatario.
Sul punto, preme rilevare che la giurisprudenza è granitica nel ritenere che – in tema di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti – è imprescindibile dimostrare, l’età del figlio, il suo livello di competenza professionale e il grado di impegno nell’ottenere un’occupazione. In particolare, nei casi in cui un figlio maggiorenne non abbia ancora ottenuto un impiego stabile adeguato alle proprie competenze nonostante la maggiore età, è fondamentale che si provi la reale incapacità di reperire lavoro, evitando di basare tale affermazione soltanto su documentazione medica non recente.
Deve, dunque, concludersi che il contributo al mantenimento del figlio non viene meno con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest’ultimo, giacché il genitore è tenuto a versare il relativo assegno fin tanto che la prole non sia divenuta autosufficiente, tenuto conto tuttavia che il raggiungimento di un’età nella quale il percorso formativo e di studi, nella normalità dei casi, è ampiamente concluso, la condizione di persistente mancanza di autosufficienza economico reddituale, in mancanza di ragioni individuali specifiche (di salute, o dovute ad altre peculiari contingenze personali, od oggettive quali le difficoltà di reperimento o di conservazione di un’occupazione), costituisce un indicatore forte d’inerzia colpevole (cfr. Cassazione civile , sez. I , 09/12/2024 , n. 31564).
DIFFERENZE TRA L.ART. 570 C.P. E L’ART 570 BIS C.P.
Ciò ampiamente premesso, occorre ora evidenziare che la mancata corresponsione del mantenimento nei confronti del coniuge o dei figli integra la fattispecie di cui all’art. 570 bis c.p., già prevista dall’art. 12 sexies della Legge sul divorzio e trasposta nel codice penale in virtù del principio della riserva di codice.
La stessa differisce da quella di cui all’art. 570 c.p., che punisce invece chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge.
Di talché, la differenza tra le due ipotesi di reato risiede nella circostanza l’art. 570 bis c.p. è integrato non dalla mancata prestazione di mezzi di sussistenza, ma dalla mancata corresponsione delle somme stabilite in sede civile. Per tale motivo, tale fattispecie è meno grave e, dunque, assorbita da quella prevista dall’art. 570 c.p..
Da ultimo si badi che la semplice indicazione dello stato di disoccupazione dell’obbligato non è sufficiente a fare venire meno gli obblighi contributivi, quando non risulti provato che le difficoltà economiche si siano tradotte in stato di vera e propria indigenza economica e nella impossibilità di adempiere, sia pure in parte, alla prestazione.
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