VICENDA
Un collezionista, con atto di citazione notificato in data 10 luglio 2013, aveva convenuto in giudizio, davanti al Tribunale di Milano, la Fondazione Lucio Fontana, in quanto deduceva che la scultura bronzea di sua proprietà, facente parte della serie delle Nature, fosse stata realizzata dall’autore Lucio Fontana. In particolare, l’attore pretendeva che la Fondazione venisse condannata a rilasciare una dichiarazione di autenticità dell’opera e ad inserire la stessa nel catalogo generale, con conseguente condanna della convenuta al risarcimento del danno subito a causa della contestazione della paternità dell’opera.
La Fondazione Lucio Fontana si costituiva in giudizio e chiedeva il rigetto delle domande presentate dalla controparte, ritenendo l’opera una riproduzione abusiva di un’altra già presente nell’archivio. Il giudice aveva disposto la C.T.U., a seguito della quale aveva rigettato tutte le domande proposte dall’attore. Il collezionista aveva poi provveduto a proporre appello per erroneità della sentenza per non aver considerato la firma apposta sull’opera come elemento determinante per la decisione, per l’erronea ripartizione dell’onere della prova nonché erronea valutazione delle prove agli atti e l’erroneità della motivazione per aver rinviato alle risultanze della C.T.U. Si costituiva la Fondazione Lucio Fontana la quale chiedeva la conferma della sentenza di prime cure, con declaratoria di inammissibilità dell’appello per carenza di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. e infondatezza dell’impugnazione ex adverso proposta.
INTERESSE AD AGIRE
La Corte di Appello di Milano si è pronunciata con la sentenza n. 1054 del 4 maggio 2020, con la quale ha inizialmente esaminato l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata dalla parte appellata. La Corte ha ritenuto condivisibile il principio riportato dall’art. 100 c.p.c., in base al quale per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse. È invero necessario che la domanda giudiziale di accertamento, per poter essere ammissibile, deve essere volta ad affermare un diritto oggetto di contestazione e non una situazione meramente fattuale. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che l’eccezione fosse infondata, dal momento che l’accertamento dell’autenticità dell’opera non costituiva un mero fatto bensì un elemento determinante, in quanto funzionale a tutelare il diritto oggetto di contestazioni. La Corte ha affermato che le contestazioni della Fondazione circa l’autenticità della scultura in questione fossero idonee ad arrecare un pregiudizio all’esercizio di disporre pienamente e liberamente del bene. La Corte ha specificato che l’accertamento richiesto non avrebbe inciso sulla libera manifestazione della volontà degli esponenti della Fondazione, che non potrebbero essere condannati ad emettere un certificato di autenticità, ma che era finalizzato a permettere al proprietario del bene di esercitare il suo diritto di proprietà erga omnes, per veder riconosciuta, in caso di accoglimento della domanda, una caratteristica del bene.
DISAMINA DEI MOTIVI DI APPELLO
La Corte d’Appello di Milano ha ritenuto il primo motivo presentato infondato. In particolare, l’attore aveva lamentato l’erroneità della sentenza emessa dal Tribunale di Milano, dal momento che non aveva ritenuto decisivo l’accertamento dell’autenticità della firma apposta sulla scultura. Il C.T.U. aveva infatti ritenuto che la firma, apposta sull’opera, costituisse una delle anomali riscontrate sulla scultura, in quanto non presente sulle opere affini, utilizzate per il confronto. La Corte ha ritenuto di condividere la tesi del C.T.U., per la quale non possono essere esperiti confronti tecnici attendibili in assenza di altre firme dell’autore, apposte con modalità affini e in un periodo storico analogo.
La Corte ha ritenuto infondato anche il secondo motivo, con il quale l’attore aveva dedotto l’erroneità della sentenza impugnata per non aver ripartito l’onere probatorio e per non aver valutato correttamente gli elementi probatori prodotti dalla parte appellante. La Corte ha rigettato tali pretese, affermando che in merito alla ripartizione dell’onere probatorio, ha ritenuto non applicabile la presunzione di cui all’art. 8 l.a., bensì ha affermato che trovano applicazione le norme codicistiche di cui all’art. 2697 c.c.
Relativamente al terzo motivo di appello, la Corte ha ritenuto infondato anche esso. L’appellante aveva infatti ritenuto viziato il metodo utilizzato da c.t.u., a causa di un mancato raffronto con un’opera da lui considerata fondamentale ai fini dell’accertamento della paternità dell’opera. Tuttavia, la Corte d’Appello ha ritenuto soddisfacenti le conclusioni del c.t.u., che aveva riscontrato differenze sostanziali tra le due opere. Dopo aver affermato ciò, la Corte ha negato la necessità di un ulteriore accertamento tecnico, ritenendo l’istruttoria svolta sufficiente ai fini della formulazione di un giudizio.
Per tutte queste ragioni, la Corte ha respinto l’appello e ha condannato l’appellante al pagamento delle spese processuali.
CONCLUSIONI
La Corte d’Appello di Milano ha accolto la domanda sul presupposto della sussistenza dell’interesse ad agire, inteso come interesse attuale e concreto ad eliminare ogni incertezza relativa l’esatto contenuto della proprietà, il cui esercizio potrebbe altrimenti risultare pregiudicato dalle contestazioni dell’ente certificatore.
Tenendo in considerazione il caso di specie, la posizione dell’ente certificatore può concretizzarsi in due modi. Il primo, si esprime nel mancato rilascio del certificato e la contestuale azione penale finalizzata ad impedire la circolazione dell’opera: questa contestazione giustifica in capo all’ente la qualifica di legittimato passivo nel giudizio civile, qualora il proprietario voglia far accertare l’autenticità dell’opera. Il secondo scenario prevede la possibilità che, al mancato rilascio della certificazione, potrebbe non conseguire alcuna contestazione. La posizione di incertezza che questa possibilità determina potrebbe essere il presupposto della sussistenza dell’interesse ad agire, senza però che tale ente, all’esito della sentenza di accoglimento, debba essere condannato all’archiviazione dell’opera operata coattivamente.
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