L’art. 1372 c.c. chiarisce che il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge. Peraltro, è testualmente previsto che il contratto produce effetto solo tra le parti, mentre non produce effetto rispetto ai terzi. Tale norma sancisce dunque il c.d. principio di relatività del contratto, ovvero di intangibilità della sfera giuridica altrui. A fronte, tuttavia, di un inadempimento, il contratto può cessare di spiegare i suoi effetti, ponendo l’ordinamento diversi rimedi alla condizione patologica derivante dall’inadempimento medesimo, prevedendo talune tutele esperibili dalle parti, quali il recesso e la risoluzione.

RECESSO

Fra le cause di risoluzione del contratto, la legge disciplina la specifica ipotesi del recesso, inteso quale negozio unilaterale con cui la parte esercita il potere di sciogliersi unilateralmente dal vincolo contrattuale; il recesso – si badi – può essere esercitato fino al momento in cui non sia stata ancora data esecuzione al contratto. La fonte del diritto di recesso può essere convenzionale, laddove è prevista dalle parti con apposita clausola, ovvero legale, qualora sia espressamente disciplinata dalla legge. Il negozio del recesso ha natura recettizia, atteso che è necessario che la comunicazione sia pervenuta al destinatario; inoltre, in base al principio di buona fede, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che sia dovuto un congruo preavviso. L’ordinamento prevede – tra le varie tipologie di recesso – quello in autotutela, speculare ai rimedi di annullamento o risoluzione, previsto per far fronte a cause patologiche originarie o sopravvenute dopo la conclusione del contratto. Quanto alle cause sopravvenute, il recesso si fonda appunto su presupposti quali, tra gli altri, l’inadempimento di una delle due parti. In tal caso il recesso si configura quale diritto potestativo ad esercizio giudiziale, essendo necessaria una sentenza costitutiva pronunciata dall’Autorità Giudiziaria, con efficacia non retroattiva.

 

RISOLUZIONE

La risoluzione per inadempimento è specificatamente normata dall’art. 1453 c.c., il quale prevede che, nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno. Si badi che la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione. L’azione di risoluzione ex art. 1453 c.c. ha natura costitutiva, giacché il giudice è chiamato a verificare l’inadempimento nonché che ricorrano i presupposti previsti dalla legge per dichiarare il contratto risolto. L’inadempimento deve riguardare la violazione di un’obbligazione contrattuale, anche laddove non si sia prodotto un concreto danno, essendo quest’ultimo oggetto solo dell’azione di risarcimento. La parte convenuta può a sua volte eccepire l’inadempimento dell’altra parte, salvo che la propria prestazione debba essere eseguita per prima. L’inadempimento, inoltre, deve essere di non scarsa importanza, di modo da evitare che la risoluzione come sanzione possa essere impiegata laddove la condotta non abbia raggiunto una sufficiente rilevanza. Da ultimo si precisi che la pronuncia di risoluzione ha carattere costitutivo con efficacia retroattiva, salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite.

 

CLAUSOLA PENALE

La clausola penale è un accordo non necessariamente inserito nel contratto principale (ma ad esso ontologicamente collegato, avendo natura di clausola accessoria) in forza del quale le parti concordano che, nel caso di inadempimento ovvero di ritardo nell’adempimento, la parte resasi inadempiente è tenuta a una prestazione in favore dell’altra, con l’effetto di limitare il risarcimento del danno alla prestazione medesima promessa, salvo – ovviamente – il caso in cui sia stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore.

 

DIFFERENZE TRA RECESSO E RISOLUZIONE DEL CONTRATTO

Alla luce di quanto fin ora detto, appare evidente come recesso e risoluzione siano rimedi giuridici sostanzialmente simili nella misura in cui entrambi permettono di sciogliersi dal vincolo contrattuale in caso di inadempimento della controparte. Tuttavia, tra i due intercorrono differenze non di poco conto: il recesso consente alla parte che ha correttamente adempiuto di sciogliersi dal contratto trattenendo (nel caso sia quella che l’ha ricevuta) o ricevendo il doppio (nel caso sia quella che l’ha prestata) la caparra confirmatoria, così forfettizzando il danno subito. La risoluzione, al contrario, permette di sciogliersi dal vincolo e di chiedere il risarcimento del danno subito. Di talché, mentre il recesso forfettizza il danno all’importo della caparra confirmatoria, la risoluzione impone alla parte che agisce in risoluzione e che intende chiedere il risarcimento del danno la prova di quest’ultimo. Da un punto di vista difensivo, sarebbe più conveniente optare per la risoluzione qualora si dovesse ritenere di poter provare il danno subito, sempreché sia maggiore della caparra.
Deve tenersi presente che, qualora si scelga la via della risoluzione, la caparra deve essere restituita, salvo che le parti abbiano espressamente pattuito che chi agisce in risoluzione del contratto possa trattenere la caparra in attesa della decisione del giudice sulla richiesta dei danni.

 

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Foto Agenzia Liverani