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RESPONSABILITÀ MEDICA D’EQUIPE E DECORSO POST-OPERATORIO – CORTE DI CASSAZIONE, IV SEZ. PEN., SENTENZA N. 32871/2021

La relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo; fonte dalla quale deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita del paziente stesso.
La mera conclusione dell’intervento non può dunque comportare una sorta di automatica legittimazione a disinteressarsi del paziente, come enunciato dalla Suprema Corte, la quale ha stabilito che l’obbligo di attivarsi per la tutela e la salute del paziente non si esaurisce una volta concluso l’atto operatorio in senso stretto, specie in presenza di una sintomatologia evidente dopo un’operazione chirurgica.
Qualora si manifestino complicanze tali da escludere l’assoluta normalità del decorso post-operatorio, sul medico grava comunque un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato; Egli è altresì tenuto ad intervenire essendo, in tali casi, il suo dovere di garanzia esteso anche al di fuori della sala operatoria.
E’ indubbio, inoltre, che la titolarità di una posizione di garanzia non comporti un automatico addebito di responsabilità colposa del garante, dovendosi accertare in concreto la sussistenza di diversi fattori quali: una condotta del garante che violi una regola cautelare, la prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso, la sussistenza di nesso causale tra condotta ed evento.

 

RESPONSABILITÀ MEDICA D’EQUIPE

Nell’attività chirurgica d’equipe, con il compimento di un’operazione chirurgica, tutta l’equipe medica assume nei confronti del paziente una vera e propria posizione di garanzia, che impone ad ogni sanitario il rispetto delle regole di diligenza e prudenza.
Dalla violazione di tale obbligo può discendere la responsabilità penale dei medici qualora l’evento danno sia causalmente connesso al comportamento omissivo.
In tale ambito la posizione di garanzia assume connotati particolarmente pregnanti con riferimento al capo dell’equipe operatoria – ovvero, il chirurgo primo operatore e coordinato dell’équipe chirurgica responsabile dell’intervento – il quale, fatta salva l’autonomia professionale dei singoli operatori, ha anche il dovere di portare a conoscenza di questi ultimi tutto ciò che è venuto a sapere sulle patologie del paziente e che, se comunicato, potrebbe incidere sull’orientamento degli altri.
Così è stato, ad esempio, ritenuto responsabile di omicidio colposo unitamente all’anestesista, il chirurgo che non abbia informato l’anestesista stesso delle condizioni cardiologiche del paziente poi deceduto.
La posizione di garanzia del capo équipe nei confronti del paziente implica anche il dovere di assicurarsi che il paziente sia adeguatamente assistito dopo l’operazione da personale idoneo al quale fornire tutte le indicazioni terapeutiche necessarie.
Invero, anche a fronte del materiale scioglimento dell’equipe persiste l’obbligo di garanzia che impone, quanto meno, l’affidamento legittimo, consapevole ed informato del paziente ad altri sanitari che siano in grado di seguire il decorso post-operatorio.

 

IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA SUPREMA CORTE

Sulla scorta di tali rilievi si è pronunciata la Suprema Corte la quale, nel caso di specie, ha ritenuto sussistente la responsabilità medica dell’equipe per non avere adeguatamente il medico verificato il decorso post-operatorio del paziente e, in particolare, per non essersi avveduto dell’anuria derivante dalla lesione iatrogena della vescica determinata nel corso dell’intervento chirurgico, così non impedendo lo shock settico del paziente.
Questo il tenore dell’anzidetta pronuncia: “il fatto che l’anestesista non avesse segnalato in corso di intervento l’anuria del paziente non si correla alle regole di prudenza e diligenza che comunque prescrivevano l’accurata indagine del campo operatorio prima della chiusura e comunque non escludono la negligenza dell’imputato nel post-operatorio attesa la sintomatologia evidente”.
Per la Corte, quindi, la colpa a carico dell’imputato era da ascriversi non solo all’imperita esecuzione dell’intervento chirurgico – atteso che la lesione della vescica, con conseguente spandimento uroperitoneale, era stata determinata all’atto dell’incisione della parete addominale – ma, oltretutto, al non avere adeguatamente verificato il decorso postoperatorio del paziente, così da non avvedersi dei “segnali” di allarme ed in particolare l’anuria.
Difatti, secondo i Giudici era pienamente esigibile il comportamento alternativo corretto vertendosi in tema di conoscenze tecniche, ben più basilari rispetto alle c.d. linee guida, che l’imputato medico chirurgo capo équipe non poteva ignorare.
Del resto, come ha evidenziato la Corte, se la lesione causata nel corso dell’intervento fosse stata immediatamente riparata, il paziente si sarebbe sicuramente salvato.

 

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