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Sempre all’interno della panoramica sui reati contro la famiglia, già oggetto di pubblicazione sul sito e a cui si rimanda, si affronta ora con questo quarto ed ultimo approfondimento (dopo quelli sul reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p., sul reato di stalking ex art. 612 bis c.p. e sul reato di violenza sessuale ex art. 609 bis) un’analisi del reato di lesioni personali, disciplinato dagli articoli 582 e ss c.p.

ELEMENTO OGGETTIVO DEL REATO DI LESIONI PERSONALI 

L’elemento materiale del reato di lesioni personali in esame viene integrato quando il reo cagioni una “malattia del corpo o della mente”. Tale malattia deve essere certificata da personale medico, il quale ne stabilirà la prognosi; la presenza di una malattia funge da discrimen rispetto al reato di percosse, sussistente in caso di violenze fisiche che, appunto, non comportino una malattia del corpo o nella mente.

In termini generali, la nozione di malattia è secondo la giurisprudenza “un’alterazione anatomica o funzionale che innesti un significato processo patologico”.

 

ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO DI LESIONI PERSONALI 

Il dolo richiesto nel reato de quo è quello generico, consistente nella consapevolezza che la propria azione – commessa con piena coscienza e volontà – provochi o possa provocare danni fisici alla vittima. Se un soggetto cagioni una lesione senza volerlo e, pertanto, senza dolo, potrebbe vedersi contestare il reato di lesioni colpose di cui all’art. 590 c.p.

 

PENA REVISTA PER IL REATO DI LESIONI PERSONALI

La pena varia a seconda della gravità della lesione e delle circostanze aggravanti del caso. Pena base è la reclusione da 6 mesi a 3 anni (lesioni cd. “lievissime”), aumentata da 3 a 7 anni se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa o una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni; se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo; se la persona offesa è una donna incinta. La lesione personale è gravissima, e si applica la reclusione da 6 a 12 anni, se dal fatto deriva: una malattia certamente o probabilmente insanabile; la perdita di un senso; la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella.

 

PROCEDIBILITÀ DEL REATO DI LESIONI PERSONALI

Il reato di lesioni personali è procedibile a querela della persona offesa se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti prevedute dagli art. 583 e art. 585 c.p. Ciò significa che la persona offesa ha 3 mesi di tempo dal fatto per sporgere denuncia-querela, rivolgendosi direttamente alle autorità o ad un avvocato penalista che rediga l’atto in funzione del futuro risarcimento del danno. Il risarcimento del danno verrà disposto sia a titolo di danno patrimoniale che non patrimoniale (come il danno biologico, voce del danno non patrimoniale in relazione alla quale il Tribunale di Milano ha stilato da tempo delle tabelle per rapportare il quantum risarcitorio alla lesione sofferta).

Nei casi differenti da quelli sopracitati si procede d’ufficio.

 

CASI PRATICI RELATIVI AL REATO DI LESIONI PERSONALI

  • Come anticipato, per l’integrazione del reato di lesioni personali deve sussistere una malattia clinicamente accertata, in difetto della quale potrebbe sussistere unicamente il reato di percosse, punito più lievemente. Per comprendere la portata di tale assunto risulta utile richiamare una vicenda che ha visto un soggetto arrecare alla vittima un taglio all’avambraccio, giudicato guaribile dal medico in 3 giorni. Questo il principio di diritto stabilito dalla Suprema Corte con riferimento a questa vicenda: “ai fini della configurabilità del delitto di lesioni personali (art. 582 c.p.), costituisce malattia la lesione cutanea consistente in un taglio all’avambraccio guaribile in tre giorni, in quanto anche una modesta soluzione di continuo dell’epidermide, con soffusione ematica, non può non comportare una sia pur minima, ma comunque apprezzabile compromissione locale della funzione propria dell’epidermide che non è solo quella di carattere estetico-sensoriale ma anche e soprattutto quella di protezione dell’intero organismo, in ogni sua parte, da contatti potenzialmente nocivi con agenti esterni di qualsivoglia natura” (Cass. pen. n. 16271/2010). La Corte ha così valutato non il pregiudizio di natura prettamente estetica, bensì l’esposizione della vittima a fattori ulteriori che avrebbero potuto comportare pregiudizi ancor maggiori.
  • Un caso ancor più curioso è stato quello definito dalla Corte di Cassazione nel 2010, con il quale è stato ulteriormente esteso il concetto di malattia. La vicenda riguardava infatti un soggetto che, assestando volontariamente dei colpi alla persona offesa, le causava un’ecchimosi (il “livido”, per usare un termine più gergale). La Cassazione ha così valutato l’alterazione dell’organismo e, in questi termini, ha ritenuto sussistente la malattia integrante l’elemento oggettivo della norma. Questo il principio di diritto stabilito: “L’ecchimosi, consistente in una infiltrazione di sangue nel tessuto sottocutaneo, ed il trauma contusivo, che determina una, sia pur limitata, alterazione funzionale dell’organismo, sono riconducibili alla nozione di malattia ed integrano pertanto il reato di lesione personale” (Cass. pen. n. 10986/2010). Nonostante successive pronunce in senso contrario, si comprende l’impatto potenziale di siffatta valutazione, applicabile in teoria ad un numero indeterminato di casi.
  • In termini di malattia nella mente, non sono mancate in passato pronunce che hanno ricondotto in tale alveo lo stato ansioso-depressivo cagionato nella vittima dal soggetto agente. Ricorrendo il nesso causale tra condotta ed evento patologico, diverse pronunce di merito si sono orientate ritenendo integrato il delitto di lesioni: a questo proposito si cita, a titolo esemplificativo, la sentenza del Tribunale di Monza in cui, nel 2007, è stata ritenuta fondata la contestazione di lesioni patite da un dipendente sul posto di lavoro a causa di condotte di mobbing. La protrazione dell’agente nella condotta lesiva anche dopo la conoscenza dell’insorgenza di uno stato depressivo in capo al dipendente – stato depressivo causato da un’attività di costante vessazione – ha condotto all’attribuzione all’autore di una responsabilità non già a titolo di colpa o dolo eventuale, bensì di dolo diretto. Il Tribunale ha, infatti, ritenuto sussistente tale forma di dolo in quanto la rappresentazione nell’agente dell’evento lesivo è apparsa non già possibile, ma altamente probabile.

 

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